Nelle ultime giornate si era alzato un rumor secondo il quale Brandon Jennings, tagliato dai Knicks ieri, si sarebbe quasi accasato agli Hornets che avevano sondato il terreno nelle ultime giornate di mercato sia per lui sia per Lance Thomas.
La notizia sarebbe uscita dalla bocca di Stan Van Gundy (ieri mattina), il quale avrebbe parlato di lui con l’agente del play e troverebbe altre “conferme” in quest’articolo in inglese.
Jennings con i Knicks partendo dalla panchina ha fatto registrare una media di 12,5 punti e 7,2 assist in 36 minuti, statistica ritenuta non soddisfacente dalla dirigenza newyorkese osservando anche il suo 38% dal campo.
Jennings è calato dal momento del suo infortunio ma può dire ancora certamente la sua, anche se aspettarsi di più che di un giocatore di livello medio sarebbe illusorio.
Brandon è un giocatore ricco di dettagli, di episodi da raccontare.
Il primo è che sfortunatamente il padre si uccise quando era piccolo.
Per ricordare avvenimenti più recenti avvenuti alle nostre longitudini, il play è anche ricordato per aver scartato l’ipotesi universitaria (probabilmente Arizona Wildcats) per giocare un anno in Europa.
Roma fu la squadra con la quale disputò una stagione non brillante chiusa con 5,5 punti di media e 2,2 assist in 17 minuti di media per 27 partite.
Dopo la deludente stagione tornò in America dichiarandosi eleggibile per il Draft, così fu il primo caso di giocatore professionista ad aver giocato in un campionato professionista saltando la NCAA per poi giocare nella “massima serie” statunitense.
Jennings ha anche donato 50.000 dollari (sperando siano andati a buon fine) per il terremoto de L’Aquila nel 2009.
A Detroit, ritrovato anche “Gigi” Datome nel team, nel 2014 (12 gennaio) smistò 16 assist in un quarto infrangendo questo tipo di record precedentemente ottenuto dal mitico Isiah Thomas. Solamente nove giorni dopo però arrivò l’infortunio al tendine d’Achille che successivamente probabilmente limitò l’ex promessa scelta dai Milwaukee Bucks nel 2009.
Da un arrivo non ancora certo (anche perché forse la società aspetta di vedere il risultao nella Los Angeles gialloviola per capire se sia il caso di “aiutare” il team?), parliamo ora di un acquisto sicuro, anche se di minor impatto.
L’ala grande Johnny O’Bryant ha firmato un contratto di 10 giorni. Nativo di Cleveland ma college alla LSU State nel (2011-14).
L’ex Northern Arizona aveva già firmato un contratto di una decina di giorni con le Pepite di Denver, esteso per un numero pari di giorni dalla dirigenza dei Nuggets sino al 6 febbraio.
Sette le partite con Denver, media punti di 2,9 e 1,6 rimbalzi in 6,6 minuti a partita abbastanza trascurabile.
Venticinque invece le partite con i Soli di Northern Arizona con medie decisamente più alte; 18,4 punti, 8,8 rimbalzi e 1,7 assist a game, anche lui stato selezionato per l’All-Star Game di categoria.
Clifford tuttavia, nonostante le perdite di Zeller e Miles Plumlee, ha introdotto Wood nelle rotazioni da un paio di partite.
Difficile pensare che la scelta numero 36 del Draft 2014 (stranamente ancora targata Milwaukee Bucks) possa ritagliarsi spazio nonostante 107 partite in NBA (19 da titolare tra Milwaukee e Denver) e medie di carriera di 3,0 punti, 2,3 rimbalzi in 11,9 minuti a partita.
Ieri, 27 febbraio 2017, il direttore generale Rich Cho ha anche annunciato che il playmaker Brianté Weber (188 cm x 75 kg), nato a Chesapeake in Virginia il 29/12/1992, ha sottoscritto un contratto di 10 giorni con gli Hornets.
La guardia quest’anno aveva già firmato due contratti consecutivi di 10 giorni con i Golden State Warriors.
In questa stagione con i Warriors, Weber ha messo piede sul parquet in sette partite tenendo una media di 1,7 punti, 0,6 rimbalzi e 0,7 assist in 6,6 minuti a partita.
Seguendo le informazioni ufficiali derivanti dal sito degli Hornets, si registrano nella sua carriera NBA 14 partite (quattro da titolare) con oltre due stagioni passate ai bordi delle panchine di Grizzlies, Heat e Warriors appunto. In totale ha una media di 3,1 punti, 2,1 rimbalzi e 1,9 assist in 15,4 minuti a partita.
Il giocatore formatosi alla Virginia Commonwealth University ha anche giocato con i Sioux Falls Skyforce nella NBA Development League in questa stagione.
31 partite (tutte da titolare) con medie di 16,5 punti, 7,5 rimbalzi, 7,4 assist e 3,3 palle rubate in 36,8 minuti a partita, cifre che gli sono valse il titolo di giocatore del mese di gennaio e la chiamata all’All-Star Game della D-League.
A lasciar spazio ai nuovi arrivi Mike Tobey che il 24 febbraio si è ritrovato con il secondo contratto da 10 giorni scaduto ma non a piedi, il centro provato da Clifford, infatti, è tornato a giocare per i Greensboro Swarm insieme a gente che aveva saggiato “la prima squadra” come Perry Ellis e Rasheed Sulaimon.
Stessa sorte temporale per Ray McCallum Junior che dopo esser stato lasciato libero dagli Hornets è tornato a giocare per i Grand Rapids.
La guardia tuttavia, al contrario di Tobey, non è riuscita a scender in campo un solo minuto con Clifford.
Dopo questi piccoli movimenti il roster degli Hornets sale ai canonici quindici in attesa di poter abbracciare forse Jennings.
La classifica dice undicesimo posto a tre partite dall’ottavo e a cinque dal settimo dopo la sfortunata prima prova di L.A..
In bilico a rollare in mezzo al mare tra le voci di creature marine che richiamano alla tentazione della bassa classifica per il tank estremo e le sirene di un’altra apparizione playoffs non certo impossibile a est a patto di non fallire più le gare da vincere.