The Chief

Robert Parish premiato dall’organizzazione degli Hornets dopo aver frantumato il record di presenze di Abdul-Jabbar. Robert Parish was gifted a grandfather clock from the Hornets organization At halftime after breaking Kareem Abdul-Jabbar’s NBA record for career games played after taking the court against the Bulls for his 1,560th game!

Avevo già pubblicato questo articolo per la pagina FB di From The Corner, lo ripropongo qui con qualche immagine e video in più per chi fosse interessato a ripercorrere un po’ la vita di Robert Parish.

Robert Lee Parish nasce il 30 agosto 1953 a Shreveport, da Robert Senior e Ada Parish (primo di quattro figli) nel profondo sud degli Stati Uniti, in Louisiana.

Gioca nella Woodlawn High School e poi al Centenary College (108 partite, 21,6 punti di media con uno zenit di 50 pt. contro South Mississipi) per quattro stagioni.
Nel 1975 partecipa alle universiadi con Dave Gavitt (futuro GM a Boston) come allenatore, ottenendo la Gold Medal.
Dopo esser stato incluso nel primo quintetto nazionale dei college viene scelto da Golden State alla numero 8 nel Draft 1976.

Dopo altri quattro anni dorati passati sulla costa pacifica in gialloblu, segna gli anni ’80 del basket NBA passando ai Boston Celtics di McHale e Bird con i quali riuscirà a vincere tre titoli NBA (1981/1984/1986) formando un big 3 per chiudere la carriera nel 1996/97 nei Bulls con il poker di anelli realizzato grazie a Michael Jordan.
A inizio stagione 1992/93 detiene con 552 rimbalzi offensivi il record NBA di questa particolare statistica grazie ai suoi 213 cm.
Con i Warriors, Parish disse di aver giocato la sua miglior partita il 30 marzo 1979.
Contro i Knicks, The Chief, segnò 30 punti strappando 32 rimbalzi ma i Warriors, incuranti, lo cedettero insieme a una futura prima scelta ai verdi in cambio di due prime scelte…

L’affare fu tutto a favore di Boston (Parish e McHale contro Joe Barry Carroll e Rickey Brown) e retroattivamente fu visto come una trappola organizzata da Red Auerbach, un affare che spinse molti GM a non trattare più con lui per timore che il “Rosso” potesse colpire ancora.
Presente in nove All Star Game, in quello del 1982 mise a referto 21 punti.
“The Chief” entra nel secondo quintetto della lega, anno 1982 e nel terzo, anno 1989.

Il famoso soprannome “The Chief” (Il Capo), glielo diede a inizio anni ’80 Cedric Maxwell, suo compagno di squadra.
“Robert Parish non sorride mai, ha sempre l’aria decisa, tipica del capo di una tribù indiana.

Mi ricorda quel personaggio del film con Jack Nicholson (Qualcuno Volò sul Nido del Cuculo). Nicholson lo chiamava Grande Capo e io chiamo Robert: “The Chief.”

Parish è stato un esempio di longevità paragonabile all’epoca a quella fornita da Jabbar o a quella di Vince Carter offerta ancora ai giorni nostri.
1.611 partite a fine carriera per il recordman di presenze NBA.
Lo yoga, le arti marziali e l’essere vegetariano fecero parte del modus vivendi di Parish.
A 40 anni Parish era ancora primattore a Boston anche se la presenza contemporanea di McHale e Bird limitavano i numeri e i riconoscimenti di Parish, in cambio arrivavano vittorie.
Parish finì la carriera a fine Regular Season 1996/97 militando nei Chicago Bulls come detto, dopo esser transitato per due stagioni ai Charlotte Hornets, il tutto finì “after” 21 stagioni passate nella NBA.
Nel 2003 entra nella Naismith Hall Of Fame, Olimpo dei giocatori di Basket NBA.

Parish venne spinto dall’allenatore Coleman a giocare a basket, sport quasi totalmente alieno per lui sino a quel momento (Robert sostenne che la pallacanestro agli inizi non gli piacesse ma che Coleman l’abbia spinto molto su questa scelta).
In seconda media Parish era già alto 6,6 piedi e a proposito di numeri, quando le divise passarono alle superiori, l’unica divisa rimasta era quella dal doppio numero 00, cifra particolare che il Capo mantenne e distinse poi Parish nella sua carriera NBA.
La doppia cifra segnò anche la sua carriera: solo il primo anno a Golden State con 9,1 punti di media non riuscì ad accedervi, poi, per tutti gli anni in gialloblu e in verde eccolo andare sopra fino alla parabola finale dove i suoi sprazzi di partita o minuti di qualità se preferite, tra le riserve a Charlotte e Chicago, abbassarono notevolmente le sue medie.
Solo agli sgoccioli di carriera con Chicago giocherà poche partite (43) mentre in tutta la sua carriera non scenderà mai sotto le 72.

Parish deve questa sua longevità alla fortuna di non aver mai subito durante la fase più importante della sua carriera un grave infortunio grazie anche a un regime alimentare severissimo e un programma di condizionamento seguito alla lettera per venti anni.
Nel 1984 a Phoenix supera già i diecimila punti in carriera e per sette anni rimane tra i primi 10 per percentuale di tiro, d’altra parte quel suo gancetto vicino a canestro…
Parish si fa valere anche nelle stoppate detenendo alla sua epoca il maggior numero piazzate in una partita di Regular Season e quelle nei Playoff.
Nel 1991/92 passa il traguardo dei ventimila punti (massimo in una partita fu a San Antonio il 17 febbraio 1981 con 40) e dei dodicimila rimbalzi, cifre astronomiche.
Su Boston dice: “Non ho mai messo in dubbio il loro amore o la loro lealtà nei miei confronti.

Boston mi ha trattato eccezionalmente bene. Non posso lamentarmi dei fan o dell’organizzazione Celtics. Mi sento come se avessi preso una bella scossa. Tutto amore da entrambe le parti, si spera. So che non c’è nient’altro che amore dalla mia parte”.
Bill Walton nel 1986 disse che Parish era probabilmente il miglior lungo tiratore dalla media ma nonostante l’amore, prima o poi le storie finiscono e sul mercato si affaccia l’emergente Charlotte.

A Charlotte

Gli ultimi tre anni della sua carriera da giocatore, con Charlotte e i Chicago Bulls, sono stati essenzialmente lavoro di coaching.
“Ho fatto un sacco di tutoraggio (qui a Charlotte)”, dice Parish e in effetti è vero.
Nell’estate 1994, il 4 agosto, dopo l’ultimo anno passato ai Celtics e l’eliminazione ai playoffs della stagione precedente subita proprio per mano degli Hornets, Parish accetta di andare a Charlotte e far da secondo (backup) allo sfrontato Alonzo Mourning, un tipo sboccato e born ready, il quale non avrebbe bisogno di una chioccia ma comunque può apprendere ancora molto da un veterano come Robert.

Charlotte Hornets Robert Parish gets a grip on the ball under the basket as he is guarded by Horace Grant, (54), and Dennis Scott, (3), during action at the Orlando Arena Friday March 8, 1996.(AP Photo/Peter Cosgrove)
Charlotte Hornets center Robert Parrish (00) drives in on Atlanta Hawks center Sean Rooks in the first half of their NBA game at the Charlotte Coliseum in Charlotte, N.C., Friday, March 22, 1996. Parrish scored his 23,000th point to place him 12th on the all-time scorers list.(AP Photo/Chuck Burton)


Il 26 novembre 1994 Parish rimane in campo 31 minuti (suo massimo in stagione) segnando 8 punti e gli Hornets vincono a New York.
Il 5/11 e il 3/12 dello stesso anno segna 16 punti a partita (massimo in stagione) contro Cleveland e a Denver (7/10 nella Mile-High City) ma Charlotte perde entrambe le partite.
La stagione seguente, a Sacramento contro i Kings, gioca 44 minuti segnando 14 punti.
Il massimo in stagione lo ottiene con San Antonio eguagliando i 16 punti dell’anno precedente ottenuti due volte mentre ne mette 15 in una vittoria a Denver.
Il suo lavoro comunque, dovuto all’esperienza, aiuta Zo e i compagni e a fine 1994, sostituendo lo stesso Mourning infortunato, aiuta Charlotte a battere i Magic di O’Neal.

Parish nell’amichevole 1994 con la Buckler Bologna.

L’anno seguente la sua verticalità sotto canestro riesce in qualche modo a far sbagliare ben quattro tiri vittoria ai Bulls che cadono di un solo punto, 98-97, battuti in casa propria dopo una lunghissima serie di W, a sorpresa.
Sul campo la sua difesa fisica rende meno ma la sua verticalità è intatta, a rimbalzo dà ancora una mano anche se meno degli anni migliori e ogni tanto lascia ancora partire quel tiro inarrestabile con parabola arcobaleno che lo caratterizzò per tutta la durata della sua carriera.
Sono 4,8 punti nel 1994/95 (16,7 minuti di media) e 3,9 nel 1995/96 (14,7 minuti di media) di media con i Calabroni.
Il 2 aprile 1996 Parish dice che la sua carriera non è ancora finita rifilando 7 stoppate ai Lakers (ricordi delle finali con i gialloviola?) e catturando 14 rimbalzi così contribuisce per Charlotte a portar a casa la partita per 102-97 (27 punti di Rice e 23 di Curry).
Quattro giorni più tardi, il 6 aprile 1996 Parish rompe il muro di games played (maggior numero di partite giocate in NBA) superando un mostro sacro come Kareem-Abdul Jabbar e gli Hornets lo omaggiano al Charlotte Coliseum con un bell’orologio con struttura a terra.

Il 25 settembre 1996 firma come free agent per Chicago, vince 69 partite in stagione regolare pur con minutaggio limitato e porta un altro anello a casa giocando insieme a Jordan.

Problemi con la legge

Qui si entra nel lato umano oscuro del giocatore…
Parish passa per anni come un tipo rigido, compassato, non incline all’irrazionalità e senza problemi come altri giocatori.
Misterioso, “The Chief”, parlava raramente con i media e non ha mai frequentato i compagni di squadra di Celtics dopo una partita.
La sua reputazione è intatta ma un giorno, nel 1993, iniziano a presentarsi le prime pesanti crepe su un muro che frana velocemente e che Il Capo non riesce a stuccare.
A parte la legittima (pur triste) scelta di vender l’anello da campione del 1986 per spendere i soldi ricavati, una prima luce negativa si accende quando una busta parte da Oakland via FedEx per raggiungere la sua casa di Weston.
Tutto normale se non fosse che un cane poliziotto fiutando della marijuana nel pacco fece scattare un mandato di perquisizione nei suoi confronti.
Accusato di possesso di sostanza stupefacente (in America la cosa era presa più seriamente anche se la NBA all’epoca ignorava quella sostanza) fu accusato di possesso e pagando 30 dollari riuscì a rimanere in stato di libertà vigilata per cinque anni.
In Italia oggi la cosa, essendo piuttosto diffusa, non crea sconvolgimenti particolari ma nel contesto di Parish le cose sono differenti.
“Non andrà mai via” (il marchio d’infamia), dice Parish, che afferma di aver fumato marijuana per rilassarsi dopo le partite ma di aver smesso nel 1995. “Ma la gente non ci crede” disse ancora Robert.

Ben più grave fu la violenza domestica del 2 giugno 1987 perpetrata contro l’allora moglie Nancy Saad.
“Eravamo a Los Angeles per giocare contro i Lakers le finali NBA.
Parish asserì che una lite scoppiò in hotel per gelosia asserendo poi di averla spinta e di esser stato provocato.
“Non la minimizzerò in nessun caso, me ne pento. Non dovresti mai mettere le mani su una donna, in nessun caso.” continuò Parish ma come li chiama lui di “scheletri nel suo armadio” probabilmente ce ne sono ancora, intendo, ve ne sono stati ancora di questi episodi.
Dal ricovero in ospedale nel 1987 per trauma cranico si torna indietro al 1981 quando secondo l’ex moglie partirono gli abusi.
Reputazione intatta, dicevamo, o quasi.

Pur parlando male rarissimamente di compagni e allenatori Parish una volta aveva colpito con un pugno il centro dei Pistons Bill Laimbeer, il quale qualche problema l’aveva avuto non solo con Parish e qui probabilmente il centro dei Pistons se l’andò a cercare…


Fu un episodio singolo ma indicativo di come a casa evidentemente Parish si potesse trasformare in un’altra persona.

Un articolo del 1995 dice che secondo l’ex moglie, l’ex marito di 230 libbre la prese a calci giù da una rampa di scale quando era incinta di otto mesi, una delle cose peggiori che si possano fare.
Nel 1990/91 Parish è nel pieno di una seconda giovinezza, i media attribuiscono questa rinascita al divorzio ottenuto a settembre 1990 anche perché la moglie aveva un carattere più fumantino ed era ritenuta una mezza pazza, soprattutto a confronto del più “compassato” Parish.

Dopo aver ripercordo il giocatore e la sua arte, dispiace molto dover affermare che sul piano della persona, Il Capo fece alcune delle più brutte cose che si potessero fare.

Oggi

Parish vorrebbe tornare nella NBA ma le macchie lasciate sul curriculum paiono essere indelebili.

Nel 2013 rilascia un’intervista dicendo che Bird e McHale (McHale è stato l’allenatore degli Houston Rockets), non hanno fatto nulla per aiutarlo a tornare nella NBA con un incarico, anche se sono stati contattati da lui personalmente.
Chiama i suoi compagni di squadra “conoscenti”.
Robert dice: “Sono irrequieto e ho bisogno di soldi”.
Nel mio caso, non ho amici”, prosegue: “Ho visto Kevin a un evento; ha detto che mi avrebbe chiamato. Non ha mai chiamato. Ho chiamato Larry due volte quando era agli Indiana Pacers, non ha mai risposto alla mia chiamata. E non solo Larry.

Su tutta la linea, la maggior parte delle squadre NBA non richiama.

Hai bisogno di un ordine del tribunale solo per ricevere una telefonata da queste organizzazioni. Non faccio parte della loro confraternita.”
Bird si difende dicendo di non aver mai ricevuto chiamate e McHale esprime rammarico per non esser riuscito a portare a Minneapolis l’ex compagno vista la posizione instabile dell’epoca.

Il feeling, anche con Ainge, era in campo ma il vecchio capo ricorda che non ci furono rapporti extra lavorativi e quindi non rientrerebbe logicamente nella loro cerchia stretta.
Bill Walton, che Parish definisce la persona più onesta che conosca, gli rispose di non prenderla sul personale ma che probabilmente nessun team l’avrebbe richiamato per questioni di protocollo.

In realtà i Celtics lo assunsero nel 2004 per lavori di pubbliche relazioni, ma Parish trovò lo stipendio di $ 80.000 troppo basso.
“Voglio chiarire, non sto piagnucolando e i Celtics non mi devono nulla” ma lui oggi vorrebbe un lavoro come vice coach, commentatore oppure nel front office.
Parish, che ha guadagnato all’incirca 24 milioni di dollari in 21 anni nella NBA, afferma di aver bisogno di un lavoro con un sostanziale stipendio da sei a sette cifre.
“Non voglio dover ricominciare da capo. Non sono un senzatetto e non sono senza un soldo, ma ho bisogno di lavorare.”

La sua casa marrone ai piedi di un campo da golf a Cornelius in North Carolina non sembrerebbe far intravedere difficoltà finanziarie per l’ex centrone ma dicendo che non avendo lavorato ed avendo elargito generose somme a amici e parenti sente l’esigenza reale di lavorare.
Ciò che ha fatto a sua moglie rimarrà un fatto indelebile, ignobile e condannabile al 100% senza se e senza, ma, oggi Parish sta provando a espiare le proprie colpe fuori dal campo e qui si potrebbe discutere per anni tra scuole di pensiero sul fatto se sia corretto o no dare a una persona una seconda possibilità…

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Informazioni su igor

La mia Hornetsmania comincia nel 1994, quando sui campi della NBA esisteva la squadra più strana e simpatica della Lega, capace di andare a vincere anche su campi ritenuti impossibili. Il simbolo, il piccolo "Muggsy" Bogues, il giocatore più minuscolo di sempre nella NBA (che è anche quello con più "cuore"), la potenza di Grandmama, alias Larry Johnson, le facce di Alonzo Mourning e l'armonia presente nella balistica di Dell Curry, sono gli ingredienti che determinano la mia immutabile scelta.