“In tempo d’estate con l’orologio della NBA apparentemente fermo, sale il tempo delle nostalgie, anche quella semplice da campetto, con il clima che si raffredda, tornerà a giocare chi è inserito nelle varie società, ma se, appunto, ormai siamo al tramonto della bella stagione, anche la NBA, con i suoi campi ci indica la riapertura delle “ostilità” sportive nella lega cestistica più famosa del mondo.
Oggi voglio fare un tuffo nel tempo che chiamiamo “passato” e pubblicare un pezzo particolare lasciando spazio ad Alì Nasrì, il quale fu un giocatore juniores, aggregato alla prima squadra della Fabriano capace di spiccare il volo nella massima serie a cavallo tra i ’70 e gli ‘80.
Ripercorreremo anche così un po’ la storia degli anni d’oro della città della carta.
Non amo definirmi storyteller, definizione anglofona che in italiano suonerebbe come “raccontatore di storie” o simili, termini che non amo molto ma, in realtà in questo pezzo ,che non tratta solo di Hornets, mi piace evidenziare aspetti che escono dal basket giocato, senza dover far sensazionalismo, apprezzando sempre molto i contributi arricchenti di chi ha giocato a basket e può portare un pensiero personale (spesso differente dal mio) sul mondo NBA, ma non solo.”
Intervista
1D) Ho già introdotto qualcosa sulla sua persona, ma mi piacerebbe conoscere l’uomo e il giocatore.
Quando s’indossa una canotta da basket sale il sacro spirito sportivo/competitivo, un fuoco immanente e trascendente al contempo.
Quella voglia di dimostrare in primis di poter battere se stessi prima degli avversari, di migliorarsi per me, anche se a oggi la mia filosofia al di fuori dello sport è quasi opposta in un mondo ultra competitivo come canta Caparezza: “Sono tutti in gara e rallento, fino a stare fuori dal tempo”. Comunque… partiamo dalla persona.
Nome “curioso”, esotico, da dove deriva?
Ci racconta brevemente qualcosa per conoscerla un po’ di più?
1R) “Sì, il mio nome ha origini siriane perché mio padre era di lì.
Io nacqui a Firenze nel 1965 da mamma italo-francese e da padre siriano.
A parte una breve parentesi di vita vissuta in Siria fino allo scoppio della Guerra dei Sei Giorni (5-10 giugno 1967), ho sempre vissuto qui in Italia a Castelfiorentino, in provincia di Firenze, ed è qui che ho iniziato a scoprire il basket a 10 anni.
Iniziai a giocare nelle squadre giovanili della squadra locale fino poi ad arrivare ad avere una breve esperienza a Fabriano nelle file degli juniores della Honky Wear per poi ritornare a giocare nel Castelfiorentino.
Giocai in Serie B a parte un paio di anni, poi a Empoli in serie C, oltre all’esperienza pesarese nella Banca Popolare in serie B2”.
2D) Il campionato italiano di quegli anni probabilmente era il secondo migliore al mondo dopo la NBA. Denominato anche “Spaghetti Circuit”, arrivavano giocatori statunitensi, spesso profumatamente pagati (strumento d’accaparramento da parte dei team delle star americane).
La Honky Fabriano qualche anno più tardi addirittura sfoggiò una divisa a stelle e strisce…
Cosa ricorda del suo vissuto in prima squadra?
Che atmosfera si respirava nei palazzetti e che cosa le manca di quei tempi?
2R) “A quei tempi era una cosa straordinaria vedere gli americani (due i tesserabili) per ogni squadra.
I campionati erano suddivisi in due gironi; Serie A1 e Serie A2 a 14 squadre.
Gli italiani erano molto più valorizzati rispetto a oggi effettivamente…
Quel tipo di basket, a differenza di questo, aveva proprio la spettacolarità di questi stranieri venuti da oltreoceano, i quali portavano qualcosa di diverso, qualcosa che oggi siamo più abituati osservare; movimenti tecnicamente molto più frequenti perché nelle squadre c’è molta più evoluzione tecnica.
All’epoca, l’inferiore tecnicismo conferiva agli americani che venivano a giocare qui, un’aura di spettacolarità.
Cresceva l’interesse poiché loro stessi portavano delle innovazioni nel gioco e nei movimenti.
Era bello per noi giovani prendere spunto, imparare dai movimenti di questi fuoriclasse che avevano un modo di lavorare diverso.
Percepivano alti stipendi, ma li meritavano perché si allenavano molto sul campo e anche fuori dal campo.
Gli stranieri che venivano a giocare in Italia non avevano ancora procuratori che li seguissero o preparatori personali, erano manager di se stessi, fissavano appuntamenti e firmavano contratti, si allenavano da soli…
In quegli anni ebbi la fortuna di passare un momento fantastico perché io ero già un tifoso di Fabriano, neopromossa dalla serie B alla serie A2 e mi ritrovai a fare un provino proprio per loro in quell’estate, così conobbi Alberto Bucci e i dirigenti dell’epoca, persone veramente gentili, magnifiche, le quali mi misero a mio agio per giocare nella formazione juniores.
Immerso dentro a quell’ambiente, con giocatori che avevo visto solamente sulle copertine di Superbasket o in qualche fotografia sui quotidiani, ricordo che quell’anno la Longhi Fabriano (militava nel campionato di A2) si salvò con Alberto Bucci come coach.
Risultato straordinario poiché la squadra dovette giocare tutto il campionato con un solo statunitense (l’altro si era infortunato a una spalla in maniera molto seria), tuttavia a tre giornate dalla fine la salvezza era già stata ottenuta.
Di questo periodo fantastico ricordo i nome di tutti quei giocatori, ad esempio; Roberto Paleari, Achille Gelsomini, Maurizio Lasi, Servadio, Leonardo Sonaglia e v’erano anche Liner Green e Day Cheese-Man, il forte americano, lo sfortunato estromesso protagonista da me menzionato prima per il problema alla spalla.
Era un ambiente molto semplice ma molto passionale.
Mi dispiace che oggi Fabriano non esista più nella nel panorama del grande basket (società sciolta nel 2008 e titolo sportivo venduto a Roseto), ma purtroppo molte società sono fallite a causa della recessione e dei grandi costi.
Di quei tempi mi manca l’atmosfera che si respirava.
In paese la gente non vedeva l’ora di andare al Palasport per vedere non solo le partite ma anche gli allenamenti.
Quando ci allenavamo erano presenti sempre tantissime persone e questo mi era di stimolo per fare meglio.
La città respirava basket, spero che in futuro Fabriano possa essere rifondata poiché è insita nel cuore della città la passione per questo bello sport.”

Siamo nel marzo 1983. L’Honky si salva ancora. In casa Fabriano fa le sue fortune battendo spesso le grandi. Qui, per la prima volta riesce a vincere contro Pesaro.
3D) Pur pagati abbastanza bene, non ci possono essere paragoni con le cifre di oggi fuori da ogni ragionamento etico ma dettate dalla legge domanda/offerta del mercato.
Mi ha detto che oggi non segue più molto il basket, anche se qualche volta lo pratica.
Io sono convinto che nella vita delle persone vi siano delle tappe, ciò che era interessante ieri, non lo è più o è meno attraente oggi… per età, per priorità, a volte per noia…
A farla un po’ allontanare dal contesto cestistico cos’è stato?
Il basket più spettacolo/business odierno e meno concreto (passatemi il pensiero, nel senso di spirito) d’oggi ha inciso sulla sua scelta?
3R) “Sì, effettivamente oggi si parla di cifre da far girare la testa.
I contratti ai giocatori di basket talvolta sono milionari, spropositati.
Diciamo che il cambiamento della pallacanestro secondo me è iniziato dalla metà degli anni ’80.
Le cifre si sono impennate quando nel mondo della pallacanestro a stelle e strisce è comparso un certo signore, tale Michael Jordan…
Nel 1984 il basket ha preso una direzione completamente nuova.
Lui è stato veramente un giocatore che ha portato dell’innovazione tecnica elevando anche il livello economico, perché, quello che ha fatto lui, credo che ancora non l’abbia fatto nessuno, non togliendo assolutamente niente ai vari Kobe Bryant, LeBron James, Steph Curry, però questo signor Jordan fu un portatore di novità, in fatto di sponsor ad esempio… forse anche per questo continua a essere sempre uno dei giocatori (diciamo ex attualmente) più popolari e più pagati.
Già qualche anno fa si parlava di 97 milioni d’Euro come cifre guadagnate tra sponsor e vari contratti che aveva firmato.
Quando smisi di giocare a pallacanestro ebbi un cambiamento della mia vita completo.
Avevo bisogno di stimoli nuovi dopo 20 anni vissuti a fare il giocatore e l’allenatore perché per me era un lavoro.
Avevo dei vuoti che non riuscivo più a riempire con lo sport.
Stavo cercando qualcosa di diverso.
Tutto poi mi si aprì in maniera incredibile quando incominciai a leggere la Bibbia e attraverso di essa incominciai a capire quale fosse il problema.
Il mio problema, almeno, per me… consisteva nel fatto che fossi separato da Dio.
Non potevo più proseguire per la mia strada, non avevo più soddisfazioni.
Tutto quello che avevo combinato fino a quel punto non mi soddisfaceva più.
Mi resi conto che ero separato da Dio e che il mio peccato mi impediva d’esser felice.
Avevo bisogno d’avere una relazione personale con lui.
Quando questo “peccato” è così radicato dentro, ti senti sempre pieno di brutti pensieri e di problemi.
La Bibbia dice che tutti hanno peccano e sono privi della gloria di Dio, come dice che il salario del peccato è la morte, ma il dono di Dio sarà la vita eterna.
Scorrendo sempre più la Bibbia, nella lettura trovavo sempre più la soluzione.
Si chiamava Gesù Cristo, il cui sacrificio colma il divario tra l’umano e il Dio, in modo d’accostarci al Signore.
Così, spinto dall’estremo gesto del figlio di Dio, abbandonai la mia vecchia vita vissuta nel peccato e incominciai a fidarmi di lui affidandogli la mia vita nuova questa vita da cristiano trovando gioia, pace, motivazioni per un nuovo entusiasmo, una nuova partenza (non è qualcosa di automatico) grazie alla Bibbia che è mia regola di fede e di condotta perché se uno è in Cristo egli è una nuova creatura e le cose vecchie che sono passate, ora sono diventate nuove”.

L’ascesa di Beal verso i cieli. Stranamente, due temi così diversi hanno in comune l’ascesa e la fiducia (fiducia in un tiro, in un compagno), la quale in campo religioso diventa fede, parola oggi usata anche per definire l’appartenenza viscerale a una squadra.
4D) Immagino sicuramente ricordi la nascita degli Charlotte Hornets a fine anni ’80… L’espansione della NBA nel 1988 vide entrare Charlotte e Miami, mentre l’anno seguente Minnesota e Orlando fecero la loro comparsa sul pianeta NBA.
In particolare Charlotte e Minnesota, più che per i risultati (essendo team da expansion draft ovviamente abbastanza scadenti) erano conosciute per le affluenze dei palazzetti sempre esauriti. Gli Hornets poi avevano anche “Il curioso caso di Muggsy Bogues” per parafrasare quasi il titolo del film con finale “Benjamin Button”, giocatore più piccolo di sempre nella NBA con i suoi quasi 160 cm.
E poi c’erano Tripucka, Robert Reid, Rex Chapman, Dell Curry (papà di Steph Curry), Michael Holton e tanti altri che passarono di lì…
Cosa si ricorda di Charlotte in quegli anni, dei giocatori, cosa le piaceva, cosa la interessava e cosa non le piaceva della squadra del North Carolina?
4R) “Non ricordo benissimo, anche se quando nacque questa franchigia mi ricordo vi furono delle novità per il basket NBA, perché oltre ai Charlotte Hornets nacquero anche altre franchigie come Miami e altre delle quali non ricordo il nome (integra l’intervistatore aggiungendo Orlando e Minnesota l’anno dopo, Vancouver e Toronto nel 1995…), ma diciamo che la NBA si estese a squadre con il punto interrogativo.
Squadre un po’ misteriose, però mi ricordo che quel periodo in questa squadra del North Carolina giocava un gigante di appena un metro e sessanta che si chiamava Bogues.
Questo è stato sicuramente il giocatore più basso della Lega NBA, tra i più famosi al mondo.
Un giocatore veramente incredibile, saltava, sfornava assist e realizzava anche punti.
Diceva d’andare a dormire con la palla nel cuscino e penso che questo sia stata la cosa che gli ha permesso d’imparare così bene a palleggiare in velocità dribblando gli avversari con un grande feeling con la palla.
Poi c’era un certo Tripucka, una guardia realizzatrice capace di segnare anche da fuori che entrò anche nelle classifiche dei miglior marcatori NBA.
Mi ricordo che nel 1992 presero anche un certo Larry Johnson, rookie dell’anno, ma, personalmente l’anno dopo smisi di giocare non seguendo più assiduamente il basket, tuttavia ricordo anche Alonzo Mourning, il quale era stato uno dei giocatori emergenti in quel periodo tra i più importanti per questa franchigia.
Rimanendo in North Carolina poi, non è un caso che gli Charlotte Hornets oggi siano gestiti da un proprietario molto importante come Michael Jordan, il quale oltretutto a North Carolina fece vincere l’anello universitario prima di sbarcare nel mondo dei professionisti.
Io ero molto più tifoso dei Los Angeles Lakers e le squadre come Charlotte erano matricole. Squadre più deboli a livello dei singoli e di gioco, quindi poco interessanti da seguire come compagini.
Non condivisi molto l’allargamento della NBA con società che sicuramente avrebbero faticato a organizzare team di livello per competere con i grandi squadroni che c’erano all’epoca come i Los Angeles Lakers, i Boston Celtics e i Chicago Bulls di MJ, i quali sarebbero diventati di lì a poco i più forti nella storia vincendo sei titoli quasi consecutivamente (in mezzo i due titoli dei Rockets favoriti dal ritiro di MJ)”…

Non state sognando. E’ proprio Michael Jordan in Italia con la “maglia” della Stefanel Trieste e non è un fotomontaggio. A breve la foto verrà inserita anche nella sezione MJ Corner.
5D) Entro un po’ nello pseudo- filosofico unendolo allo sportivo… in altre leghe professionistiche come la NFL non è impossibile essere competitivi e magari giocarsi una finale.
Nella NBA gli equilibri sono destinati solitamente a perdurare per anni a causa di regole economiche che consentono scappatoie, mercati che risultano essere più interessanti di altri e attraggono giocatori che ormai puntano o al denaro o a vincere un titolo.
Spesso assistiamo al modello proposto da Miami con tre star (Bosh, James e Wade) che oggi a Oakland sta funzionando (Curry, Thompson e Durant, se poi volessimo aggiungere anche Dr. Green faremmo poker) creando sfide da feud, rivalità che in secundis portano una disparità sui valori, sulla forza di questi team rispetto alle altre squadre.
Non a caso sono tre anni che alle Finals arrivano i Cavaliers e i Warriors e anche quest’anno se Boston, Houston, San Antonio, qualche outsider permettendo, saranno le favorite…
Dal ritorno da figliol prodigo di James in Ohio si è creata la polarità perfetta “Est/Ovest”, ma a uno sguardo di un tifoso che non sia pro Warriors o Cavaliers a lungo andare potrebbe risultare una situazione stancante.
Sostanzialmente viviamo in un eterno presente con team che battagliano 82 partite all’anno per vana gloria (anche se per me le partite degli Hornets sono tutte interessanti).
E’ una situazione che vive sulle stesse osannate ed uniche regole mercatistiche (condite dalle eccezioni) che oggi non danno speranza a diversi giovani o magari tendono a vessarli, poiché anche i più determinati, in un ambiente ostile, troveranno non poche difficoltà a trovare la loro via.
Mi rendo conto che la duplice domanda è lunga e non di facile risposta, ma… cosa farebbe per cambiare un po’ la situazione NBA, che regole modificherebbe?
E che cosa potrebbe fare, cosa dovrebbe cambiare questa società per dare una mano ai giovani che a volte, laurea o meno, sono costretti alla disoccupazione, al lavoro sottopagato o a essere sempre precari non riuscendo a garantirsi un futuro stabile?
E’ un discorso di regole, presuntamente paritarie ma in realtà che creano parecchio squilibrio, aldilà delle capacità professionali di dirigenti e singoli individui…
5R) “Ogni epoca ha avuto la squadra che ha sempre devastato, dominato le stagioni, a partire dagli anni ‘80 per non andare ancora più indietro in periodi che non ricordo.
Posso dire che i Boston Celtics e i Los Angeles Lakers in quei periodi erano le squadre più forti e si davano gran battaglia.
Gradualmente poi ci sono stati i Chicago Bulls nei ’90, così come nei 2000 arrivò San Antonio, abile a vincere 5 titoli…
Oggi si dice che Golden State sia la squadra più forte di tutta la storia della NBA, ma su questo non sono d’accordo.
Stanno vivendo la loro epoca attuale come franchigia più forte, ma in passato ce ne sono state anche delle altre.
La storia è fatta di questi filoni.
Per me i giovani sono il fulcro del movimento dello sport, sono il nostro futuro in ogni ambiente della società; nell’economia come nella politica, quindi se riusciamo a valorizzare i giovani e a farli emergere preparati possiamo avere delle buone prospettive per il futuro per le nostre attività, così anche nello sport.
Purtroppo oggi i nostri giovani, anche nelle nostre società sportive, vengono sempre di più messi da parte.
C’è un problema di scarso impegno nel volerli migliorare perché esiste la mentalità d’andare a prendere giocatori già fatti e pronti per poter vincere subito, ma questo è un discorso che dovremmo cercare di cambiare, soprattutto nelle società più piccole dove magari mancano soldi, come d’altra parte sta succedendo anche nelle nostre province, nelle quali tante società di basket sono costrette a ridimensionarsi non potendo iscriversi anche a campionati importanti preferendo scendere di due categorie e ripartire magari dalla promozione paradossalmente a quel punto con i giovani perché la politica dei “young” ti permette d’investire a basso costo…
Cosa farei per cambiare la situazione delle NBA?
Che regole modificherei?
Beh, sono regole che modificherei anche nelle altre leghe a livello mondiale, compresa la nostra federazione di pallacanestro.
Soprattutto mettere delle restrizioni economiche, tutte le società dovrebbero poter investire in modo che non siano sempre le stesse a comandare il gioco.
Quindi, qui, maggior controllo dei bilanci e un limite, un tetto finanziario per gli investimenti”.
6D) Secondo lei gli Hornets targati Michael Jordan comprando un centro come Dwight Howard (gran fisico) hanno fatto la mossa giusta?
Da molti è definito crepuscolare, un giocatore al tramonto, ma a Charlotte mancava presenza fisica sotto canestro.
Potrebbero arrivare ai playoffs, migliorando le 36 vittorie della scorsa stagione?
6R) “Howard è un giocatore che ha un grande fisico.
Il Superman delle schiacciate all’All-Star Game.
Mi pare che qualche anno fa avesse deciso di ritirarsi dalle scene… poi ci ha ripensato grazie al pastore della sua chiesa che l’ha convinto a proseguire.
Tutto dipenderà dalla voglia che ha dentro di sé, dalla motivazione che riuscirà a trovare.
In caso positivo potrà fare la differenza per una squadra come Charlotte”…
Grazie per la cortesia ad Alì Nasrì.